mercoledì 2 gennaio 2008

In omaggio al luogo che fù.

La retorica è lì. Sempre in agguato. Viene facile il pensiero melenso se, girando, la testa guarda esattamente a 44 anni fa. “Esagerato”, direte voi. Conobbi il Salvini (Gino) che avevo 18 anni. Frequentavo la quarta classe dell’Istituto Tecnico A. Pacinotti in via Curatatone Montanara. Tra il Liceo Classico e lo Scientifico c’eravamo noi: i geometri. Il Salvini (Roberto) mi pare facesse la quinta ma della sezione ragionieri. Incontrai i Salvini perché i miei genitori avevano comprato casa in via Guadagnali. Un bel salto di cui, forse, ora non si coglie più l’altezza: dall’ultimo piano, in affitto, di via Alessandro Della Spina, due pianerottoli sopra un giovane dalla faccia buona, ora portavoce del Sindaco Paolo Fontanelli, all’appartamento di proprietà a pochi passi dal viale delle piagge. Credo che nel celebrare il cinquantennale del Salvini altri ricorderanno l’abilità espansionistica di Gino e Roberto: una sedia un po’ più in là e un recinto perché nessuno si faccia male. Un esercizio continuo di assimilazione di spazio e ruolo. Si, spazio per un ruolo. Seduta, rinfresco e ricovero per anime assetate di compagnia. Turbolenza.
Gino era socialista, Roberto più defilato, sornione, anarchico – diceva senza insistenza - lavorava sodo e aspettava che si facesse tardi. Poi spariva e spendeva. Chi gli era vicino ne godeva e a me è capitato anche quello. Gino ci guardava e se si pagava e non si rompeva ci mostrava simpatia. Se c’era da aiutare qualcuno lo faceva. Anzi li ho sempre trovati disposti, i Salvini, silenziosi e veloci anche nell’aver da farsi rispettare. Gino vedeva il ribollire delle nostre acque. Da lui si beveva e si cantavano canzoni d’amore e di guerra. Lui scuoteva la testa e di anno in anno, sempre sostenuto dalla presenza e dal lavoro di Roberto perfezionavano il loro raccolto.
Io non ho mai capito se eravamo precoci o tardivi, se eravamo la fine o un inizio, sta di fatto che dal “baracchino” di Gino allo “chalet” di Roberto è trascorsa la fase epica della mia generazione. Noi i rivoluzionari sedevamo dal Salvini come Camillo sedeva alle spalle del Che nella cavalcata che conduceva a Santa Clara. Da li sciamavano le nostre gesta prima baldanzose, poi meste. Prima vocianti, poi più cupe.
Gino. Chissà cosa avrà pensato di quel via vai di belle ragazze. Di quelle magliette fini e di quelle gonne corte e di quel nostro andare e tornare, di quel baciarsi e raccontarselo. La scuola dei padroni, il potere agli operai, la vita che corre in fretta, la vita che si ferma brusca. Non era di gran parole Gino, ma era socialista che per lui voleva dire lavorare dalla mattina alla sera e metter via i guadagni. Guardare intorno e pensare che per campare e per il futuro dei figli bisognava averceli i quattrini.
“Bel socialista – gli dissi un giorno – scremare il latte che si da ai bambini”
Lui mi prese per un braccio, avvicinò la bocca al mio orecchio e mi rispose: “Io l’ho scremato a tutti non solo ai poveri, io l’ho scremato anche al figlio del prefetto, prima di tutto la giustizia.”
La giustizia quando ha il volto di Gino e il suo sorriso sornione è latte scremato, un resto sbagliato, un gettone per le corse sulle automobiline, una condanna con lo scuotere della testa, un assoluzione con una pacca sulla spalla.
Capito raramente a Pisa. Mia madre abita ancora in via Guadagnali, vicino al viale delle Piagge. Quando vengo ci faccio due passi e arrivo sempre dal Salvini. L’ultima volta c’era Emiliano, il figlio di Roberto, il nipote di Gino. Coetaneo di mio figlio Carlo, il più grande. Non guardo nemmeno, non conosco nessuno. Invece rivedo il Battelli, Flavio Tardelli, Stelio e il bisbiglio delle sue poesie, Nadia, Tina, Renzo, il Nencini, Pino, i fratelli Di Prete. Ora che ci ripenso, noi maschi non eravamo precoci, eravamo tardivi. Loro, le femmine si che erano precoci e quel poco che c’è da dire va domandato a loro.
Un saluto.

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