mercoledì 2 gennaio 2008

Continua, forse.

27.10.2006

Mi piacerebbe fare i conti con la mia memoria. Rammendare qualche buco. Prima che sia irreversibilmente affidata, poi persa. Attenzione non merito alcuna attenzione ma è inevitabile. Una frase mal citata, un episodio deformato, una testimonianza inattendibile non è negata a nessuno. Inesorabilmente l’esperienza goduta e sofferta di ognuno si trasforma in pulviscolo. Gli anni sessanta e il boom, gli anni settanta e i pantaloni a campana, gli anni di piombo, il rampantismo, il crollo del muro, la globalizzazione, l’integralismo e di nuovo la guerra. Centinaia di morti in ogni edizione del telegiornale. La sfilata dei partiti presi. Inabissandosi nella propria vicenda si risulta estranei e partecipi.

“Non mi sono mai occupato di politica. E’ la politica che si è occupata di me” . L’avrà sentito per strada, Rodolfo e l’ha fatta propria. Gli piaceva sorriderne. Era stato antifascista, aveva militato nella ventitreesima brigata Garibaldi. Qualche sostegno ad azioni da Gap. Per lui era la seconda catastrofe: dopo la prima, la seconda guerra mondiale. La resistenza, la liberazione. Primo Segretario della Federazione Provinciale del PCI. Presto sostituito tornò a casa, al suo garage, ai carburatori, agli spinterogeni. Apriva un cofano e ti diceva cos’è che non andava e provvedeva a riparare con pezzi vecchi quelli ormai fuori uso. Un orologiaio. Quando ricordava le minacce, le botte, gli stenti, Faliero che gli era morto tra le braccia, ripassava quel po’ di geografia e mormorava “un terzo del mondo è rosso” e mi guardava.

Questo per ricordare che “la politica” non ci è sembrata una passione, come si ama dire: “la passione politica”. La politica è e resta una condizione. Ci sono periodi in cui ho creduto di farla, di avere un compito. Era un miraggio di cui indossavo la veste (abitus), altro che utopia. Aprivo gli occhi e via dai compagni. Studenti senza libri, operai senza fabbrica. Storie di viaggi, di appuntamenti, di riunioni. Full immersion con cui si intendeva sovvertire l’ordine delle cose. Intanto avevamo invertito l’ordine del nostro destino. A qualcuno è andata malissimo. Spunti geniali: tutto il potere all’immaginazione, l’abbandono degli organismi rappresentativi nelle università, il mercatino rosso, prendiamoci la città, l’esperienza in Angola (il Burraco di Chipango), il Sud che per me volle dire Sicilia, Clemente, Ciuzzo, Gela e l’illusione di navigare come pesci nell’acqua. L’acqua risultò salata e noi pesci d’acqua dolce. Eravamo precoci o tardivi ?

Poi la famiglia, la prima volta di un capo famiglia. Commilitoni che si salutano con affetto eccessivo. Le fortune e le tragedie che si inseguono. Il disagio per l’assenza di un impegno che era soprattutto un modo di vivere, un modo di essere per il quale occorre una certa vocazione. Caddero come foglie i miraggi e gli uomini che li abitavano. Sono passati in fretta gli anni dell’illusione e si son fatti lunghi i momenti di vuoto. Il rivoluzionario che non fa il ristoratore, che non ha la capacità per fare il giornalista o il ricercatore, fa il pubblicitario. Cambiare abito non solo è possibile ma diviene necessario e come Fregoli il trasformismo naufraga nel travestitismo. Sotto non c’è più il rivoluzionario ma il senso di una fortunata sconfitta e un disagio che diventa cronico.

Allora la voglia di prendere in mano un bandolo e sciogliere il gomitolo per depositare la memoria di cose che ancora risultano grevi.

1- La prima volta. Una grande bandiera del VietNam sul pennone del ponte di mezzo.

Gioiello e mio padre erano affettuosi amici. Due pilastri del vecchio PCI. Di quelli a cui il partito non aveva dato niente ma di cui si temeva il giudizio. Gioiello era un operaio della Vis, una fabbrica di vetro della zona industriale di Porta a Mare.

Livorno c’ha Fattori e i macchiaioli. I canali, i pesci in mezzo alla tavola. Pisa mi ricorda le mani di Fidio Bartalini, le facce e gli occhi grandi dei ritratti di Uliano Martini, poi gli orti botanici e l’iperrealismo con l’anima gonfia di Beppe Bartolini. Ma un ponte di mezzo bianco e nero, caldo e ventoso, con il pennone nudo puntato contro il cielo non lo ha dipinto nessuno. Eppure quel pennone da allora e per un bel po’ svolse il suo ruolo. O di qua o di là.

Gli americani avevano invaso la fascia smilitarizzata del Vietnam e in città si svolse la protesta. Per la mia generazione un debutto. Veloci sit-in. Correre a staccare le aste del filobus che privo di contatto elettrico si fermava in mezzo alla strada mentre intorno gridavamo Vietnam Rosso e Vietnam libero senza ancora avere eretto uno steccato tra i due modi di dire. Prima che diventassero due modi di fare. Sul pennone, in alto, irriconoscibile era stato issato un pacchetto e dal pacchetto calava a penzoloni un cordino. Al momento giusto andava tirato e una grande, enorme bandiera del Vietnam avrebbe troneggiato in mezzo al ponte, tra gli applausi e i canti dei manifestanti avevamo spiegato il simbolo del nostro impegno. Io tirai quel cordino e poi vià seguito dallo sguardo orgoglioso di Gioiello e di mio padre.
“Hai visto ? Ce l’ha fatta”
“ Ora è meglio che non si faccia vedere”
E quella notte, per la prima volta dormii a casa di un compagno. Di un compagno del PCI. Ancora eravamo tutti del PCI…

(continua, forse)



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