martedì 24 novembre 2009

L'eco più forte.

FACEBOOK mi ha allontanato da questa solitudine. Ma non va bene. Torno. Mi ha sorpreso vedere quanto tempo è passato. Pare ieri. L'ultimo post è datato gennaio 2008. Possibile ? Eppure !Se ora mi chiedete a che punto stiano le cose io non saprei che dire. Mi pare che vada bene il consolidato senso di precarietà. Ogni giorno il successo consiste nel fatto che lo status è quello, non cambia. E non ci chiediamo perchè e nemmeno come. E' così. Tra me è la certezza c'è una separazione dinamica. Non passo da un posto all'altro per processo evolutivo, promozione, aumento di considerazione. Non guadagno di più, non ho più titolo. Nemmeno retrocedo, perdo in capacità d'acquisto, né mi arrocco, mi nascondo, acconsento. Niente. Nemmeno questo. Ma resto appeso al filo. Il mio contratto è di quelli che scadono. Devo stare tranquillo ? I potenti miei amici ripetono che si, devo stare tranquillo. Ed in fondo tranquillo sto tenendo gonfio il canotto e confidando ancora nella capacità di spingere sui remi. Vedremo e vi faro sapere.

Amici che non ci siete: scrivere nel vuoto rende più forte l'eco.

martedì 3 febbraio 2009

Il dubbio viene

Il dubbio viene.
Non c'è niente da fare: il dubbio viene. Ci sono momenti che resta soffocato, altri in cui ti trova distratto. Ci sono impennate di presunzione, grumi d'orgoglio, comparazioni che paiono vantaggiose. Ma il dubbio viene.
In fondo solo poco più di un pugno di decine d'anni fa, intorno a me, se una cosa c'era, era la certezza. Eravamo certi d'essere persone perbene, lavoratori, attaccati alla famiglia, ai figli, alla loro educazione, alla trasmissione di valori a cui era stata dedicata la vita. Solo poco più di un pugno d'anni fa : padroni e preti da una parte; lavoratori, partigiani, garibaldini e poi comunisti dall'altra.
Nel mezzo la città. I quartieri, le macerie lasciate dalla guerra, le botteghe artigiane, gli spacci alimentari, il quadernetto nero chiuso da un elastico in cui da dietro il banco annotavano il resto non riscosso sulla spesa di ogni giorno in modo da accumulare un po’ di risparmio che avremmo usato a Natale per mettere in tavola una bottiglia di spumante e una scatola di Ricciarelli.
Nel mezzo tra noi e loro. Un pianerottolo e due porte. La nostra e di fronte quella della Signora Baldorilli che era la sposa giovane e in carne di un sottoufficiale dell'aviazione militare. Loro non votavano comunista nemmeno a parlarne eppure "buon giorno Signora..", "..buon giorno Signora". "Vittorio, fai il bravo, vai a sentire la Signora Baldorilli se per caso ha un po’ di sale da prestarci che l'ho finito. Poi quando esco lo compro e glielo rendo". Ed io un attimo dopo suonavo il campanello alla porta di fronte, su un pianerottolo lindo che pareva un salottino, che veniva mantenuto così dal turno di pulizia che le signore si erano divise e che naturalmente avevano rispettato con la rinomata precisione delle Guardie Svizzere. "Buon giorno Signora Baldorilli - dicevo - ha mica da prestarci un pochino di sale che dopo la mamma quando esce lo compra e glielo rende, per favore" " Ma certo, entra, entra" Ed io guardavo la casa che pareva uno specchio. La cucina in formica azzurrina era su per giù come la nostra ma la sala sembrava un film. Buia e lucente. Un tavolo ovale con il vetro e le sedie imbottite con la seduta rosso ruggine. Due specchiere, un divano, una libreria e la radio, grossa, con il giradischi per sentire le romanze. Centrini e soprammobili. Poggiate sopra un vassoio, due bottiglie che parevano sculture, di vetro grosso e tappo quadrato in cui brillava un liquido che a guardarlo sembrava buonissimo. "Ecco qua, di alla mamma che non si preoccupi, per un po’ di sale".
Nel mezzo il nostro rione, ora diremmo il quartiere. La casa del popolo e la parrocchia. Chi andava a catechismo, poi giocava a ping - pong. Era difficile che quelle famiglie ci dessero il voto. Noi alla casa del popolo si ballava con la musica di un Jukebox, ma tra maschi. Il sabato sera i grandi ballavano con le ragazze e noi sempre tra maschi.
In linea di massima era tutto chiaro. Noi avremmo dovuto studiare e i genitori lavorare sodo. Senza tante storie, passo dietro passo. Sapendo che quello era il percorso da compiere, che un giorno, ormai non lontano, l'Italia sarebbe stata dei Lavoratori. Governata dal Partito Comunista di Palmiro Togliatti ed anche loro, uno alla volta, compresa la Signora Baldorilli e suo marito il Maresciallo Maggiore avrebbero votato, magari senza dirlo, per il Partito Comunista Italiano.
Cosa che non accadde mai, ma a tutti noi non mancò niente. A parte il fatto che a me i Jeans originali americani, i Lee, non me li comprarono mai. Se volevo c'erano i Reefle, quelli che non scolorivano, se no niente. Ma che conta, che importa. Quello era il particolare che non va mai confuso con il generale. Alcuni con i Jeans che scolorivano ed io unico a cui non scolorirono mai potemmo conservare le nostre differenze, arricchirle, disegnarle. Potemmo occupare quella terra di mezzo che era la città, le piazze, le strade, le scuole, con i nostri canti e le nostre intenzioni. A volte festose, altre più cupe e indispettite.
Il tempo vola e quello che vedemmo passare, non va detto per amor del rimpianto, era davvero un gran tempo. Gli uomini e le loro consorti erano usciti dalla guerra ed ora le corti erano piene di marmocchi. A questi dedicarono, più che l'attenzione, l'immaginazione. "A scuola, a scuola...a lavorare ci si pensa noi" quando lo dicevano non ti guardavano nemmeno. Non volevano mica convincere. Lo dicevano per se.
Il dubbio, viene. Anche allora e negli anni a seguire. Quando si andava a votare era dura. Anche allora, qui da noi si vinceva ma in Italia, nel paese vincevano i preti e dietro a questi i padroni. Erano di più. Erano di più le monache delle mondine, i parroci dei minatori, i padroni degli operai. Da non credere.
Via San Lorenzo si chiudeva a T. A destra, a pochi metri la Questura: " sui muri della Questura c'era scritto in rosso, la rivolta è orami vicina/ La polizia ha arrestato un paio di pennelli, ma sono scappati anche questa volta un gruppetto di ribelli " . A sinistra, dopo aver scorso il muro di una bella fabbrica, si trovava Porta San Zeno. In quella fabbrica lavoravano tante donne. Era la Marzotto, ottocento operai. Ottocento famiglie operaie che nel giro di pochi mesi si trovarono in mezzo alla strada. Insieme a loro, i nostri canti e i nostri cortei ma la Marzotto restò chiusa ed ora è la sede della segreteria della Università degli Studi.
Spariti. Spariti come gli operai della Vis, della Fiat di Marina, della Piaggio, del Pennellificio Toscano. Migliaia di famiglie che restano e cambiano. Una volta ci mettemmo a contarli, avremmo voluto raccontarli. Fabio ne intervistò per ore ed ore di nastro. Nessun dramma, il terziario e l'Università avevano ammortizzato il colpo. Noi eravamo cresciuti, appesantiti e trasformati. Tutto sotto gli occhi, tutto come sabbia che corre via dalla mano. Tutto, e il dubbio viene e rimane.
Abbiamo nuotato per anni come pesci nell'acqua. Zelig, Fregoli, Bustric non sapevano far meglio. Tu disoccupato ? Disoccupato anch'io. Tu soldato ? soldato anch'io. Tu carcerato ? Carcerato anch'io. Ma anche tu sardo ? sardo anch'io. Tu Siciliano ? Siciliano anch'io. Come pesci nell'acqua: identici ! E' così che si faceva "un mondo di fratelli", altro che canzoni.
Conobbi Ciuzzo ad Agrigento ma veniva da Gela. Aspettava sulla soglia del Centro Sociale. Dal continente arrivavano due compagni del Movimento. Due che erano scesi per restare, per costruire insieme l'organizzazione per le lotte di tutti i picciotti. Ma non ho voglia di parlare di quell'esperienza come di un'esperienza politica. Non ho voglia nemmeno di ricordare le parole del nostro viaggio a Sud. Per me poi, non era nemmeno sud. Era più in là.
Ciuzzo Abela da Gela. Studente Medio, frequentava poco e svogliatamente le Scuole superiori, mi pare l'Istituto Tecnico Industriale, chimico. E', certo. A Gela l'Anic aveva impiantato il petrolchimico e di li a poco era nato un quartiere residenziale dove vivevano i tecnici. Tutt' intorno una campagna bruciata dal sole, silenzio rotto dallo zillare delle cavallette. Gela, capirò, non era la città più brutta d'Italia. Era il luogo più stupito che abbia mai visto. Le persone e le cose parevano chiedersi “ma davvero son qui ?” Lo stupore fu reciproco e immediato, come la simpatia, la fiducia e l'amicizia. Profonda, generosa, naturale. Ciuzzo era moro, alto. Le guance coperte da una lucente barba nera e occhi vispi e voce forte e versatile, ma bassa e profonda. Sette fratelli maschi, padre e madre. Si arrangiavano producendo e vendendo prodotti chimici. Saponi e detersivi per lavare auto e superfici. L'importante era che i figli studiassero. Prendessero un titolo, si mettessero al riparo dalla paura di una povertà sempre pronta a prendere il sopravvento. Mi trattenni con loro a lungo. Insieme a dire no. No ai sindacati, ai partiti, alla chiesa, ai notabili. No. Mi trattenni a lungo ad ascoltare la storia di poeti e naviganti. Di fratelli che non sarebbero più tornati. Di morose che non potevano essere guardate, nemmeno pensate. I destini erano segnati. In più Ciuzzo aveva una malattia che pareva una fortuna. Zoppicava ma era veloce. Aveva due mani enormi e un viso della bellezza di un Cristo. Parlava ai suoi con voce calma e raccontava che Gela avrebbe potuto essere bella. Con la sua marina e la sua campagna. Quello che guastava era lo sfruttamento. Era quel prendere senza chiedere. Era che l'Anic faceva stare bene e sperare solo quei pochi e non tutti siciliani. A Gela c'erano anche i sardi. Ma agli altri, ai meschini, cosa prometteva ? Cosa dava ? Lavoro precario, rischi e fatica. Tanta fatica e rischi che puntualmente facevano suonare le campane della chiesa centrale.
Il lavoro non c'era e il reclutamento era una feroce costruzione d'inimicizia. Emigrazione e rimesse. Case che al posto del tetto avevano i ferri per le camere della sposa appena fossero arrivati dei soldi dalla Germania. Gela era stupita che qualcuno si fermasse a parlare. Che ascoltasse la loro voce e che raccontasse dei fratelli del nord. A pensarci quello che passò fu un venticello che lì per lì rinfresca un poco l'aria e lascia che il dubbio poi si faccia strada da solo.
Era come se avessi fatto una corsa impegnando le forze che avevo senza tener conto della respirazione necessaria, del dosaggio e rimasi in mezzo al guado. Battuto mi ritirai. Pochi mesi e mi nacque il primo figlio, pochi mesi e arrangiai qualche lavoro, pochi mesi e sentii suonare alla porta. Andai ad aprire. Era Ciuzzo. Si iscrisse alla quinta dell'Istituto Tecnico Industriale della mia città. Viveva a casa con noi. Cullava e ninnava mio figlio con quella sua voce bassa e melodica e il giorno di un compleanno, dopo una buona mangiata e uno robusta bevuta, mentre giocavamo a ping pong, si accasciò e mori tra le mie braccia.
Io lo accompagnai a Gela. La chiesa centrale lasciò che entrasse la bara accarezzata dalle sue bandiere. Le bandiere erano rosse e senza stemmi. Tutta la città aveva il cappello in mano. Il suo tempo era finito e anche quello dello stupore si mostrava rassegnato.
Un salto. Fanne un altro. Sono trascorsi trentasei anni. A Gela c'è un sindaco battagliero. Saro Crocetta. C'era già anche ai nostri tempi. Era un picciotto del '51 e gironzolava intorno. Non ho ricordi, mi resta solo il nome e la sua dichiarazione pubblica di omosessualità. Forte. Nella mia stagione a Gela le giornate si dividevano tra studenti medi in sciopero, operai dell'Anic in riunione, disoccupati al collocamento, la sede, il ciclostile, la competizione con quelli di Potere Operaio che ramazzavano costruendo un vicolo tra lotta di popolo e lotta del partito armato. Un continuo ammiccamento ai miei che invece mi tenevo ben stretti. Però erano più belli loro. Alti, atleticamente prestanti e accompagnati da donne misteriose e attraenti. Donne che si lasciavano sognare. Parlavano nei capannelli ma non erano brave ai fornelli e anche l'ordine in casa era quello che era. Noi eravamo più bravi sia ai fornelli che con la granata. E' certo. Eravamo più bravi. Ma a volte mi prendeva una voglia di tenerezza che non stavo in piedi. Beati loro, pensavo. Mi giravo e affogavo tutto nel sonno. Una sera, anzi era notte fonda, tornavo da Siracusa dove si era svolta una riunione non so più su che, perché, con chi, imboccai una curva che si apriva sull'ultima discesa prima di abbandonare l'asfalto e inabissarsi nel quartiere senza strade e senza fogne dove avevo affittato un bellissimo appartamento a tetto da cui vedevo il mare e le luci del petrolchimico con cui a volte ragionavo. La notte non era buia, era grigia, calda. Tutto serrato, russava, e si potevano cogliere gli sbadigli dei gatti e il passo rassegnato dei cani randagi. Da una porta una luce invadeva il piccolo marciapiede e da una tenda composta da fili di simil corallo una gamba faceva capolino. No ?! Sobbalzai alla guida. Una puttana a due passi dall'arrivo. A due passi da quella rassegnata solitudine c'era una puttana. Un miraggio ? Un miracolo ? Comunque un cambiamento. Una epifania ! Accostai la cinquecento al marciapiede. Mi guardai intorno. Il capo dei picciotti che vogliono fare la rivoluzione imbucarsi con una puttana non era proprio un granché di notizia. Ma l'ora era tale. Scesi attraversai la strada come se non fossi io ed entrai. Sulla sedia dietro la porta un uomo piccolo portava la coppola e teneva lo sguardo basso. Appena varcata la soglia si alzò e uscì. In fondo alla stanza in piedi davanti al letto un uomo mal travestito con la gamba colpevole ancora bene in vista. No! No! NOOO! Uscii senza correre, salii in macchina e me ne andai mentre alle spalle sentii soltanto: "Aspetta". Quella notte faticai di più a prendere sonno.

Anni luce, fisionomia dispersa. Le cose stanno insieme, si parlano ma non aspettano la risposta. Convivono come i separati in casa. Gli episodi si guardano in cagnesco e il dubbio viene.

(continua)